Non c'è più spazio per il sonno di Kronos...

15.01.2016 23:34

SENZA RADICI, SENZA RACCONTO

 

Nella velocità dell’apparente epoca dell’informazione suprema, che vede regnare la confusione della parola, sembra non esserci più spazio per il racconto. Il tempo del racconto esige una concessione a sé stessi ed agli altri che non pare poter essere più tollerato nell’attualità del presente. Non pare esserci più tempo per i tempi del racconto.

Il racconto esige qualcosa che meriti di essere raccontato e qualcuno che lo voglia raccontare. In origine è Colui-che-ha-vissuto-il-racconto, in seguito diventa semplicemente Colui-che-racconta-il-racconto. Ricordo mio padre che racconta di quando era apprendista bambino a cinque anni nella bottega di un falegname siciliano degli anni ‘40, verrà il giorno in cui racconterò di mio padre bambino apprendista a cinque anni nella bottega del falegname di Canicattì, Agrigento, 1947, 1948, o giù di lì.

Senza racconto non c’è continuità, non c’è trasmissione, non c’è radice. Non c’è specchio dove riconoscersi, non c’è specchio verso cui voltarsi per vedere dove andare. Vale tutto e vale niente. È la confusione delle lingue, la Torre di Babele che si erge sempre più arrogante e che punisce sé stessa. L’epoca dell’attualità è satura di parole all’inverosimile, così tante da essere assordanti nella loro vacuità ed incomprensibilità. Dove non c’è spazio per il silenzio, vi è assenza di senso. Dove non c’è spazio per il silenzio, non vi è spazio per il racconto.

Nel silenzio delle cose ognuna al proprio posto, la follia viene regolata dal ritmo dell’imponderabile, del sorprendente, del meraviglioso, e tutto questo diviene naturalmente materia di narrazione mitica, familiare, popolare, comunitaria. Nei silenzi delle cose raccontate, e delle parole custodite, le radici delle lune scandite nelle notti che passano, ed il conforto di riconoscersi allo specchio. Può essere ben poca cosa, ma oggi non abbiamo più nemmeno quella.

Mio nonno faceva il calzolaio durante la campagna d’Africa e fece un po’ di soldi che si bevve e giocò tutti una volta tornato a casa; gli chiesi un paio di volte della neve della Russia, non ne volle mai parlare, so solo che mangiò molte patate al sicuro nella casa di una donna che lo salvò. Mio padre imparò da mio nonno a riparare scarpe, io sto andando in giro con la suola mezza staccata e fra un po’ dovrò procurarmi un altro paio di stivali.

Non c’è senso in una società che maledice sé stessa e si dirige volutamente verso l’abisso. Non c’è senso nella velocità con cui fa tutto questo. La frenesia patologica con cui svolge meticolosamente questo compito – il suicidio: Follia che non appartiene più al Fato degli dei. Fuori da questo sembra rimanere per costrizione l’unico format dei presentatori televisivi uguali dalla Norvegia al Messico, e dei cartelloni pubblicitari appiccicati con la stessa colla dal Giappone al Montenegro. Non c’è più spazio per Ghilgamesh o Fetonte, e degli amori di Zeus e del sonno di Kronos non sembra più importare a nessuno...


 

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