Cenni di medicina tradizionale di Messico e Guatemala

08.12.2013 14:34

 

Questo testo costituì la base di una conferenza tenuta da Enzo Cangialosi nel Settembre del 2010 a Telti in provincia di Olbia (Sardegna) nell'ambito del Festival della Natura organizzato da Maria Pasqui dell'Associazione culturale A.s.cu.na.s.

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Per comprendere la situazione attuale della medicina tradizionale messicana e guatemalteca bisogna volgere uno sguardo all’avvenimento che appartiene in fondo ad un recente passato ma che ha inevitabilmente segnato e mutato in maniera irreversibile la cultura e le società di quella parte di mondo e del continente americano tutto: la Conquista.

L’arrivo degli Spagnoli segnò una frattura traumatica nei confronti delle popolazioni indigene, che nel volgere di un tempo relativamente assai breve videro crollare il loro mondo in favore di qualcosa di nuovo e sconosciuto che andava a sostituire tutto ciò a cui erano abituati da millenni e costituiva la loro storia, cultura e quotidianità. Tuttavia, la cosa che ritengo interessante soprattutto in relazione ad altre parti del continente americano (nord e sud) è che proprio in Messico e Guatemala, i luoghi (specialmente il Messico) che furono il primo teatro di invasione e di scontro da parte dei coloni nei confronti delle popolazioni indigene, quest’ultime non sono state annientate completamente ne’ su un piano culturale né su quello fisico (si pensi al Nord America o all’Argentina o al Cile), ma sono riuscite a sopravvivere e a mantenere in certi casi una forte identità culturale. Certo, tutto ciò è avvenuto in forme e misure differenti a seconda delle situazioni specifiche, nel senso che non è possibile parlare di un’unica realtà etnica in queste terre: si pensi come ancor oggi in Messico esistono ufficialmente 62 etnie differenti (che probabilmente raggiungono di fatto la novantina) e in Guatemala i gruppi linguistici all’interno del ceppo maya sono circa una ventina.

L’accorpamento tra Messico e Guatemala in questa sede si deve al fatto che la parte meridionale del primo (Chiapas e penisola dello Yucatan) è caratterizzato fortemente da popolazioni indigene maya proprio come il Guatemala; in passato Chiapas e Guatemala costituivano addirittura un’unica realtà amministrativa e politica.

La presenza indigena ancora attuale e forte – nel senso di costituente veramente le società messicana e guatemalteca – fa sì che la dimensione temporale e reale che si incontra tutt’oggi in questi paesi ha fortissime radici con la realtà preispanica, e che di fatto ci si trovi a vivere spesso contemporaneamente due tempi differenti in un apparente paradosso temporale e storico: il tempo di ieri e il tempo di oggi.

Questo tema presenta diverse implicazioni sulle quali cercherò di porre l’attenzione per quanto possibile, a partire dal fatto che la realtà medica di questa parte di mondo vede coesistere, sia in senso di positiva interrelazione ma talvolta anche conflittuale, quello che è un certo modello occidentale con pratiche che, almeno per quanto riguarda certi paesi come l’Italia, risultano “strane” e incomprensibili: è infatti piuttosto comune, ad esempio, che il dottore di riferimento di una famiglia (come potrebbe essere per noi quello della mutua) utilizzi di fianco ai farmaci chimici erbe, preparati omeopatici o pratiche di tipo energetico; oppure, per chiunque abbia girato tra i mercati messicani, sarà familiare l’immagine di zone di bancarelle piene di erbe curative per tisane, decotti o applicazioni varie con indicazioni specifiche per guarire patologie di ogni natura fisica e non solo.

Il discorso fitoterapico continua sostanzialmente ad essere parte integrante del bagaglio culturale delle popolazioni indigene, sia per quanto riguarda la dimensione dei curanderos che quella meramente familiare: intendo dire che spesso pare esserci una certa abitudine e conoscenza di rimedi casalinghi a base di erbe anche tra la gente comune e non solo necessariamente tra coloro che sono addetti “ufficialmente” alla cura dei corpi degli altri. È una situazione che probabilmente non è molto dissimile da quella che si poteva incontrare anche da noi fino a 50/60 anni fa, e talvolta ancora oggi in ristretti ambiti sociali e territoriali. La differenza attuale tra la nostra e la loro situazione sta nel grado di imposizione e controllo pressoché totali che il modello medico occidentale è riuscito a sviluppare nei confronti di altri modelli che, al di là delle loro differenze, hanno il tratto in comune di essere
tradizionali.1

È bene chiarire subito un elemento fondamentale per il discorso che stiamo affrontando: tra le popolazioni indigene della Mesoamerica2 non esiste generalmente il concetto di sistema medico organizzato e codificato come lo concepiamo noi, in quanto le categorie utilizzate da coloro che si relazionano direttamente con la sfera della salute, nonché dalla comunità tutta, sono differenti dalle nostre; o, in parole più semplici, differente è la visione dell’esistenza. Un esempio illuminante ci viene dato dalla realtà dei Maya-K’iche’3 del Guatemala4.

All’interno di queste comunità esistono quattro principali figure di terapeuti, le quali genericamente come gruppo vengono indicate come
ajkun, che letteralmente significa “coloro che curano”, cioè in spagnolo curanderos: l’Ajkunanel, il Chapal b’aq, l’Ajq’ij e la Ilonel.  L’Ajkunanel (colui/colei che cura) corrisponde più o meno al guaritore generico, e si occupa specialmente degli adulti avvalendosi moltissimo dell’uso delle erbe, sia per curare che per prevenire. Il Chapal b’aq è letteralmente colui/colei che prende le ossa, e si occupa di traumatismi minori (lussazioni, distorsioni) e talvolta anche più seri come fratture, avvalendosi di massaggi, trazioni manuali e erbe applicate esternamente sotto forma di impacchi o direttamente nella fasciatura. L’Ajq’ij è quello del giorno, “il guardiano dei giorni, colui/colei che si occupa del computo del tempo, mantenendo vivo il calendario sacro di 260 giorni (Tzolkin), dentro il quale leggerà gli eventi e i destini umani.”5 Il termine spagnolo che i K’iche’ prediligono per riferirsi a questa figura è guìa espiritual (guida spirituale), il che ci illumina un poco sulla sfera che questi terapeuti abbracciano: medici dell’anima, che si occupano di problemi di varia natura sia personali che comunitari in quanto depositari della spiritualità maya della comunità preservata attraverso il tempo. Questo aspetto del tempo e la sua importanza in relazione all’ Ajq’ij traspare in modo importante anche nella principale cerimonia che egli presiede, al centro della quale si colloca la sacralità del Nagual del giorno che si celebra (concetto che andremo ad esporre tra poco). Ed infine la Ilonel: ella è la levatrice, la comadrona in spagnolo; il termine indica la persona che vede, dalla radice verbale ilo, “vedere”, colei che segue la gravidanza della donna e vede venir al mondo la nuova creatura. In realtà è qualcosa di più di una semplice levatrice: ella non solo segue la donna incinta e le diagnostica la gravidanza, ma seguirà anche il bambino nelle prime settimane di vita e in certi casi anche nel corso degli anni della sua crescita (motivo per cui viene anche detta Iyom, che significa ava, nonna). Anch’ella utilizza erbe, soprattutto nel tuj (il temazcal, il bagno di vapore mesoamericano) o choj (altro tipo di bagno utilizzato per la puerpera), ma anche in bagni normali o tisane.

Ora, un aspetto estremamente interessante è il tipo di collocazione che assumono queste diverse figure di terapeuti all’interno e in relazione alla comunità di appartenenza, intesa nelle sue varie sfaccettature. Innanzitutto il riconoscimento da parte degli altri avviene non perché c’è un pezzo di carta che afferma che il tal
don o la tale doña siano ufficialmente “dottori” di riconosciuta capacità, bensì attraverso un’accettazione comunitaria che passa attraverso l’adesione al dono generalmente riconosciuto da un Ajq’ij e il passa parola che l’individuo in questione è un valido terapeuta. In effetti non ci troveremo a che fare con persone che si distinguono particolarmente per ricchezza, abitazioni e posizioni sociali rispetto al resto della comunità, bensì con individui che nella vita quotidiana di tutti i giorni sono sostanzialmente indistinguibili dagli altri, tanto che i trattamenti terapeutici avvengono solitamente nelle normali abitazioni di loro proprietà senza che in esse vi siano spazi esclusivamente adibiti all’attività medica. La questione del dono è estremamente interessante: esso indica una sorta di capacità, di potere che non viene ben definito, e che sicuramente non è frutto di corsi o insegnamenti umani, bensì è qualcosa che ad un certo punto un individuo incontra nel corso della propria vita prendendone coscienza attraverso i sogni. È in seguito ad una serie di sogni che una donna capisce che il suo destino è di diventare ilonel e addirittura ne riceve la conoscenza; poi, magari, questa verrà approfondita stando al fianco di un’altra ilonel più anziana ed esperta, ma generalmente l’insegnamento di base giunge attraverso il sogno, ed è un insegnamento che viene comunque connesso ad una radice ancestrale come eredità de los abuelos, degli avi, cioè il tutto viene vissuto all’interno di una dimensione, un continuum storico/sociale, un flusso culturale e mitico ininterrotto a cui queste popolazioni si sentono di appartenere. Spesso capita che l’accettazione del dono costituisca una questione sofferta per svariati motivi, come ad esempio il fatto che diventare ilonel possa venir visto dalla famiglia e dalla donna stessa come un’interferenza alla vita della famiglia stessa. C’è quasi una sorta di costrizione nell’accettare il dono perché, fino a che questo non avvenga, l’individuo in questione e magari i suoi familiari soffrono pesantemente di mali fisici; nel momento in cui avviene l’accettazione ecco che di colpo finisce ogni sorta di male. Questo tipo di dimensione medica è ovviamente aliena al nostro modo di vedere le cose e sostanzialmente incomprensibile, eppure si regge da innumerevoli secoli e regola la vita di queste comunità.

Ciò che non ci appartiene più (perché sicuramente fino ad un certo punto del corso della storia faceva parte anche del bagaglio cultural popolare dell’Europa) è quella sensibilità che abbraccia non solo l’aspetto meramente fisico di causa/effetto in cui si inserisce la biomedicina ma anche qualcosa d’altro che va oltre, non escludendo ma integrando e compenetrando il primo. Questo avviene perché sostanzialmente è impossibile ma soprattutto inconcepibile disgiungere tutti i vari aspetti dell’essere umano, proprio come è impossibile poter separare un qualsiasi elemento della natura da tutti gli altri. Per questo le malattie sono percepite allo stesso tempo
naturali e divine, in quanto l’uomo appartiene come ogni altra cosa al mondo naturale, ed espressioni di disequilibrio nelle quali non diventa più tanto importante la causa, bensì il senso, ciò che rappresentano nella vita dell’individuo. In un quadro del genere, forzando il tema con categorie nostre, potremmo parlare di malattie naturali, del segno e di azioni umane malvagie: le prime possono anche essere volute da un ente divino (il Dio cristiano o l’Ahw ancestrale poco importa) ma sono fatte della stessa materia della natura e per questo rientrano nelle possibilità di cura dei vari terapeuti; le seconde insorgono per indicare un bivio, una scelta, un mutamento importante al soggetto in questione in relazione alla propria vita, e generalmente rientrano nella sfera d’azione dell’Ajq’ij; il terzo tipo è frutto di un’azione diretta di qualche altro essere umano avente lo scopo di recare danno (e qui entra in gioco il discorso dei brujos) e per tale motivo impossibile da connettere con un volere o l’ambito divino.

Un altro aspetto sul quale vorrei tornare proprio in relazione al quadro generale che stiamo esaminando è quello del computo del tempo e della sua interpretazione affidati all’
Ajq’ij. L’importanza di tale funzione si può comprendere meglio solo cercando di afferrare la concezione del tempo nella cultura maya. Premettendo che la preservazione dei calendari (lo Tzolkin, quello sacro, e l’Aab’, quello solare e profano), del loro ruolo e della loro essenza è avvenuta pur avendo perso lungo la strada della storia coloniale alcune sfumature (o altre avendole coscientemente proposte in un normale sviluppo storico/culturale), tale ambito continua a costituire uno dei principali in cui ritrovare il sapere maya e mesoamericano in generale. Non voglio addentrarmi troppo nei tecnicismi dei due calendari, quello che mi preme sottolineare è la concezione di base che ad essi soggiace. Lo Tzolkin è un calendario di 260 giorni in cui una sequenza di 20 nomi si intreccia con un’altra di 13 numeri. Il primo giorno è 1 B’atz, e perché si ripeta questa combinazione numerica (1)/nominale (B’atz) devono appunto passare 260 giorni, cioè si deve compiere l’intero ciclo calendarico. Questo significa che ogni singolo giorno è diverso dagli altri; l’importanza di ciò risiede nel fatto che ogni nome viene considerato in parte una divinità, in parte un nagual, per cui ogni singolo giorno esprime o corrisponde ad una forza o energia (o insieme di forze). In pratica, il nagual di un dato giorno ne caratterizza la natura. L’insieme delle forze in campo, cioè dei naguales dei giorni, guidano le vite degli uomini, e per questo assume grande importanza il saper comprendere e decifrare il loro fluire. A ciò si aggiunga che i giorni vengono ulteriormente caratterizzati dalla combinazione anche col calendario solare, l’Aab’, il quale utilizza sequenze di 20 giorni ripetute x 18 volte, per cui ne consegue che l’interpretazione viene resa ancor più complicata. Anche nell’ Aab’ è fortemente presente il discorso dei naguales, in particolare col fatto che ogni inizio anno (Cargador del aῆo), che per ragioni matematiche può cadere solo in 4 particolari naguales, influenza e caratterizza (col suo nagual) tutto il resto del ciclo. È facile comprendere come in un quadro del genere assuma ad esempio grande importanza il giorno di nascita di un bambino (e con esso il ruolo e la relazione della ilonel con esso).

Ma cos’è un nagual? Il nagual potrebbe essere definito come il doppio animale che ognuno di noi ha in natura, ma che solo gli sciamani e i maestri nagualisti possono conoscere a fondo e percepire. In realtà è un discorso piuttosto complesso ed anche molto oscuro, del quale probabilmente non si conosce veramente abbastanza per poterne cogliere appieno le sfumature che effettivamente sono molteplici. Di fatto, un maestro nagualista può identificarsi col suo nagual e quindi attingere alle sue energie/forze/qualità in quanto il nagual di un individuo è strettamente legato a doppio filo con l’individuo stesso. I più potenti maestri nagualisti possono addirittura giungere a trasformarsi fisicamente nel proprio nagual, ed anche possedere più di un nagual che, in taluni casi, può anche essere costituito da forze quali il fulmine, l’acqua, etc. È evidente che un simile sistema di percezione può aprire le porte a sviluppi molto potenti in chiave sciamanica, sostanzialmente nel quadro di una relazione e uno scambio diretto con le energie della natura. Questo genere di figure, così come i più comunemente chiamati
brujos, si collocano spesso in una sottile linea di confine tra due mondi, in una complementarietà tra bene e male, nonché tra umano e magico, la cui discriminante è la volontà e l’uso che essi scelgono di applicare a poteri e conoscenze che possiedono. Insomma, lo stesso tipo di figura può essere visto ora bene ora male all’interno di una comunità a seconda di come agisce.

Il tema del nagualismo è un altro di quegli elementi che  ci connettono direttamente con la realtà preispanica e addirittura paiono riportarci molto indietro nel tempo. Un tema comune sostanzialmente a tutte le culture di quest’area di mondo (Messico e Guatemala) ma che pare essere riconoscibile in forme differenti come patrimonio di altre culture del continente americano. Un tema di cui ancor oggi, ad esempio, ho sentito parlare nel deserto messicano come attuale (donne esploratrici del nagualismo a spasso di notte tra gli arbusti e i cactus del deserto di Wadley e Estacion Catorce con nel corpo peyote
6) ma che difficilmente non è riconoscibile nei culti e nelle visioni olmeche7 così fortemente interessate all’uomo-giaguaro e alla identificazione tra questi due esseri rappresentati a turno uno più con le fattezze dell’altro e viceversa, oppure negli ordini militari e di elite presenti tra i Mexicas quali i famosi guerrieri aquila e guerrieri giaguaro (ma analogamente già sicuramente riscontrabili anche tra i Toltechi addirittura in relazione al culto di Quetzalcòatl8).

Insomma, ancora una volta possiamo renderci conto che la tradizione presente in Messico e Guatemala è davvero tale in quanto davvero ancestrale, e che questo è avvertibile facilmente nella presenza attuale di pratiche, pensieri, rimedi, elementi che provengono direttamente da un tempo e una realtà che hanno subito traumaticamente e tragicamente l’incontro con la cultura e la presenza europea. Se alcuni elementi sono sostanzialmente giunti fino a noi tali e quali (penso ad esempio a pratiche non inquinate da elementi moderni di Temazcal), non si può d’altronde ignorare la commistione che si è prodotta in moltissimi casi tra le due culture, a partire dagli elementi religiosi ma non solo. In effetti abbiamo già avuto modo di intuire come la sfera medica, proprio perché olistica, si relaziona con altri ambiti della vita sociale ed individuale, come ad esempio la spiritualità e la religione. L’interazione col Cristianesimo ha generato prodotti apparentemente “strani” e “curiosi” ai nostri occhi, ma non per questo meno potenti, incisivi e caratterizzanti la vita delle comunità rispetto ad un passato non molto lontano. A seconda della contaminazione avvenuta nei secoli, possiamo oggi trovarci ad assistere più o meno o per nulla all’utilizzo delle invocazioni ai santi in cerimonie di purificazione contemporaneamente all’uso di uova per assorbire ed eliminare il male da una persona piuttosto che al sacrificio di galli e galline. In realtà parrebbe che rituali antichi si siano nel tempo ammantati della forma esteriore di un più o meno presunto Cristianesimo per sopravvivere, se non nella totalità dei casi comunque in una grande percentuale. È interessante rilevare come mi sia capitato, parlando in un mercato, di sentirmi ribaltare la tesi molto diffusa che il Cattolicesimo ebbe la capacità di assorbire culti e rituali locali per potersi insediare più facilmente ed assumere il controllo del territorio: è andata spesso esattamente al contrario, mi è stato detto, cioè le culture locali hanno assunto talvolta apparenze cristiane per poter sopravvivere alla storia senza di fatto mutare la propria essenza. E allora, quando ci si trova in certe chiese sedicenti cristiane, come ad esempio in S. Juan Chamula o S. Andres Larraìnzar in Chapas, cosa incontrano i nostri occhi? Spazi privi di panche e sedie, dunque pressoché totalmente liberi, col pavimento ricoperto da aghi di pino, centinaia di candele accese e incenso, teli che scendono dal soffitto, gruppi di donne e bambini seduti per terra a mangiare, bere, parlare, fare orazioni, alzarsi per accendere candele sotto altari dedicati a santi o alla Madonna che paiono spesso essere più importanti del povero Cristo posto a lato o in un angolo, oppure accenderle direttamente per terra davanti a loro, uomini vestiti di tuniche di lana nera o bianca a seconda del ruolo religioso che svolgono
limpias con uova, acqua, candele e galline, riti pagani in luoghi dove magari Giovanni Battista è venerato più di Gesù (S. Juan Chamula). Insomma, che Cristianesimo è questo? E un prete? C’è un prete in queste chiese?

Io stesso mi sono trovato in casa di una donna sedicente sciamana mexica che mi ha fatto per due volte una
limpia con acqua e fuoco, ascoltandomi il polso, parlando di spiritelli maligni ma ad un certo punto recitando il Padre Nostro invitandomi a fare lo stesso con lei. Lei che mi aveva invitato ad un rito notturno in una caverna tra danze, canti, celebrazioni e limpias mexicas, mi aveva incaricato, visto che quel giorno non era nelle sue possibilità, di andare a casa di un uomo e di abbracciarlo con tutto l’amore possibile in nome della Santa Trinità. L’uomo era malato di cancro e le aveva chiesto aiuto. Prima di andare mi diede la Bibbia aperta e mi disse di leggere un Salmo per prepararmi a questa “missione”. Carmen, così si chiamava la donna, pareva avere richieste abituali in quanto curandera; aveva all’ingresso di casa sua un altarino con varie foto e candele accese, fiori e bicchieri d’acqua; sotto ogni bicchiere vi era riposto un fogliettino piegato con scritto il nome di persone che avevano chiesto il suo aiuto, dentro generalmente un fiore, e lei si poneva davanti all’altare a fare orazioni, credo invocando anche i santi cristiani ma magari poco dopo parlandomi di Quetzalcòatl e di quante parole d’amore questi avesse lasciato al suo popolo.

In questo quadro di commistione tra differenti culture emergono però anche aspetti non sempre piacevoli o positivi. Se è vero quanto detto, cioè sull’utilizzo di forme occidentali/cristiane da parte delle culture locali per sopravvivere, è altre sì vero che l’interazione dei modelli occidentali si delinea spesso e sovente come a tutti gli effetti una forma di neocolonialismo. Il non saper cogliere come un modello tradizionale sia depositario di una cultura ancestrale ed assolutamente funzionale al proprio contesto, produce la classica supponenza occidentale di voler imporre ciò che ritiene essere il meglio, a volte in buona fede altre con cinico e pianificato atteggiamento criminale, a tutti gli effetti, come già detto, secondo una logica neocoloniale. Un esempio lampante è il ruolo della
ilonel tra i Maya K’iche’: dato quanto visto, si può facilmente comprendere come una levatrice addestrata in un corso di formazione promosso da l’OMS, il cui ruolo viene dunque riconosciuto in maniera anomala rispetto alla tradizione (il sogno, il dono), rompa una modalità di convivenza sociale formatasi nel corso dei secoli, e possa risultare dirompente per gli equilibri e la modalità di relazione all’interno di una comunità. Oltretutto, quello che accade dal punto di vista strettamente medico è che spesso la qualità del servizio reso dalle iloneles uscite dai corsi o i programmi di stampo occidentale risulta inferiore a quello delle terapeute tradizionali: infatti ad esempio, perché così le viene insegnato, alle prime difficoltà propone come soluzione il ricovero in ospedale in quanto si sente inadeguata, anche quando non ve ne sarebbe realmente necessità e la ilonel tradizionale probabilmente saprebbe far fronte alla situazione9.In realtà, una volta giunti all’ospedale10, la donna e la sua famiglia possono trovarsi davanti ad ulteriori problemi, quali strutture in cui si parla solo spagnolo (mentre spesso tra i pueblos maya si parla solo la lingua tradizionale) o addirittura mancanza di effettive strumentazioni tecnologiche che spingono inevitabilmente a rivolgersi (quando, cioè assai raramente, le possibilità economiche lo permettano) a strutture private, le quali magari risultano essere strettamente legate in vari modi alle stesse ONG che partecipano ai corsi di formazione, insomma: assistiamo a strani circoli viziosi dai risultati spesso opinabili; in molteplici casi a dinamiche di rottura e alterazione rispetto a quelle tradizionali, con risultati spesso piuttosto negativi, come l’esautorazione dell’autorità dei terapeuti tradizionali senza però proporre realmente un qualcosa o qualcuno in grado di riempire il vuoto che si forma.

E allora viene da chiedersi quale vero beneficio il modello medico occidentale e le organizzazioni che lo promuovono recano alle popolazioni indigene tradizionali nelle varie parti del mondo, spacciando il loro agire come “bene per le popolazioni più povere”: quale bene, e chi ha chiesto loro di fare questo bene?

O piuttosto, nello svuotamento culturale e nell’appropriazione della sfera della salute, non avviene anche un appropriarsi dei luoghi, delle risorse e dei corpi degli altri? È emblematica in tal senso la lotta che molte popolazioni maya stanno ad esempio attuando da tempo per preservare il proprio patrimonio di conoscenze erboristiche nei confronti del rapace tentativo continuo delle grandi multinazionali farmaceutiche di appropriarsi di piante e rimedi naturali tradizionali, pretendendo di porvi il loro marchio di copyright. Mentre il nostro modello culturale e specificatamente medico continua a proporsi secondo dinamiche affaristiche, di potere, controllo e imposizione, giungendo oramai a ritenere di poter privatizzare qualsiasi cosa, anche la vita stessa e le sue fonti primarie, ecco che ancora dai modelli tradizionali ci arrivano istanze, comportamenti e sensibilità che paiono spesso molto più giusti, intelligenti e attenti al bene comune di quanto non faccia appunto quello occidentale che continua ancor oggi, talvolta ancor più di ieri, a ritenersi superiore, più civile ed avanzato mentre guarda a loro magari come superstiziosi o addirittura primitivi.