I volonterosi carnefici di Hitler

I volonterosi carnefici di Hitler

Autore: Daniel Jonah Goldhagen

Dati: 1997, 622 p. Illustrato con 32 fotografie bianco/nero su tavole. Cartone editoriale, sovraccoperta.

Traduttore: Enrico Basaglia

Casa Editrice: Arnoldo Mondadori Editore

Trattazione: Storia e Nazismo

 

RECENSIONE:

Questo saggio del 1996, all’epoca della sua pubblicazione, fece piuttosto scalpore, sia in Germania così come in altri paesi, per la tesi che si prefiggeva di dimostrare, e anche per il fatto che l’autore non era sostanzialmente conosciuto in ambito accademico.

Ne I volonterosi carnefici di Hitler l’autore sostiene e si preoccupa di dimostrare con una notevole mole di dati e riferimenti ad altri studi o materiali giudiziari, che l’opera del genocidio ebraico non può essere attribuibile ad un ristretto numero di criminali nazisti che costrinsero l’intera nazione a sprofondare con loro nell’abisso oscuro della violenza e della barbarie morale ed etica, ma che al contrario l’intera Germania della prima metà del ’900 condivise ben volentieri il programma eliminazionista nazionalsocialista nei confronti degli Ebrei. Sostiene inoltre che, se fino all’epoca del suo studio quasi nessuno a livello di storiografia ufficiale ha mai preso in considerazione tale ipotesi, è perché vi è sempre stata l’incapacità di riconoscere, forse perché avrebbe significato in fondo guardare sé stessi (in quanto individui occidentali) allo specchio, che il tedesco comune dei primi decenni del XX secolo non era uguale a qualsiasi altro europeo della medesima epoca: non lo era a livello morale, etico, di sensibilità umana, di visione del mondo.

Per fare tutto questo Goldhagen si preoccupa di ricostruire la genesi storica dell’antisemitismo tedesco, mettendo così in luce come esso non sia stato un fenomeno improvvisamente esploso con Hitler ma come invece sia stato il prodotto di secoli di storia europea e locale, che già nell’800 cominciò ad assumere dei connotati distintivi e tendenti esplicitamente ad un’ideologia eliminazionista, tra le cui sfumature iniziò a svilupparsi un estremismo razziale. Insomma, a livello ideologico erano già state ampiamente poste le basi che ritroveremo successivamente nel nazismo. È bene anche precisare che con “antisemitismo eliminazionista” si intende l’idea di eliminare gli Ebrei dalla società tedesca, idea che venne sviluppata in forme diverse (dal cacciarli tutti fuori confine, al costringerli alla morte sociale, al deportarli in uno sparuto angolo del mondo a morire di fame e malattie, etc.) e di cui la variante genocida è solo una di esse e la più estrema.

 

Dunque, come sempre è fondamentale fare a livello storico, l’autore contestualizza la Germania del dopo I Guerra Mondiale dimostrando come quella nazione fosse a livello generale profondamente imbevuta di antisemitismo, e di un antisemitismo particolarmente acceso e rabbioso. Se non si tiene conto di tale contesto, diventa in effetti molto difficile riuscire a trovare il perché, pienamente plausibile e convincente, uomini e donne abbiano potuto saltare il fosso della morale e dell’etica e massacrare a milioni altri uomini, donne, bambini come loro. Naturalmente, dice Goldhagen, l’antisemitismo eliminazionista razziale tedesco, perché si trasformasse realmente in genocida, ebbe bisogno di alcune altre e non semplici concause che permisero il formarsi di un quadro sociale e politico adatto all’incarnarsi di un progetto ai nostri occhi folle, ma a quelli di un tedesco dell’epoca del tutto logico e razionale, prime fra tutte l’arrivo al potere di un regime disposto a mettere in pratica tale progetto di cui, è bene ricordarlo, non fece mai mistero negli anni precedenti al giugno del 1941, momento in cui prende definitivamente senza remore il via il programma genocida.

 

Per poter discutere nel merito e confutare o sostenere le tesi di un saggio di questa portata è necessario inevitabilmente padroneggiare una mole copiosa di dati, informazioni e fonti, direttamente (accesso alle fonti) o indirettamente (presa in esame di altri studi); ma è indubitabile che I volonterosi carnefici di Hitler si rivela comunque sia un contributo estremamente interessante allo studio dell’Olocausto sotto vari punti di vista. Prima di tutto per la tesi centrale del libro in sé: per quello che implica a livello di analisi della società tedesca dell’epoca, e per il fatto che, rendersi conto che dopo cinquanta anni dalla sconfitta della Germania nazista ancora non fosse normalmente preso in esame ed accettato che il genocidio ebraico fu possibile in quanto pressoché un’intera nazione appoggiò consapevolmente (a vari livelli, è chiaro) tale progetto, mi pare sconcertante tanto sarebbe dovuto (e dovrebbe) apparire se non ovvio per lo meno estremamente probabile dal punto di vista dello storico. In secondo luogo per la mole di dati riguardo ad aspetti poco conosciuti o di fatto del tutto sconosciuti del fenomeno nazista: infatti, per dimostrare la propria tesi Goldhagen analizza alcune strutture della morte e chi le componeva, vale a dire “i realizzatori” del genocidio, con lo scopo dichiarato di esaminare chi erano questi soggetti in carne e sangue, cosa facevano, cosa pensavano, che vita conducevano prima e durante la guerra. Ecco allora che emergono figure “del tutto normali”, padri di famiglia, operai, artigiani, giovani, meno giovani, cinquantenni, dottori, donne, amori vissuti all’interno dei campi di lavoro, tutta gente che rispecchia in certi casi sostanzialmente la società tedesca dell’epoca nella sua composizione per fasce nel mondo del lavoro e per il grado di dedizione all’ideologia nazista (cioè ufficialmente iscritti al partito nazionalsocialista, alle SS, etc.). Il quadro che ne emerge è quello di una normalità disarmante nel senso di individui che lungi dall’essere costretti dal regime, dalla pressione ambientale, dall’ignorare ciò che stavano facendo all’interno di un più vasto meccanismo di cui non erano in grado di scorgere i fini e le forme, compiono al contrario coscientemente e spesso appassionatamente il compito a loro assegnato, convinti di essere nel giusto: la missione storica a cui si sentivano chiamati e a cui con fervore avevano risposto era l’eliminazione della causa prima del male nel mondo e in particolare per la Germania, cioè l’Ebreo, la cui centrale politica, economica e morale veniva riconosciuta ad est, dalla Polonia alla Russia.

 

Il libro prende in esame in particolare tre tipologie di strutture della morte naziste: i battaglioni di polizia (che dipendevano dalla Shutzpolizei che era a sua volta una struttura della Ordnungspolizei), i campi di lavoro e le marce della morte. Per tutti e tre ci vengono fornite moltissime informazioni solitamente poco conosciute perché, come per lo meno riguardo ai battaglioni di polizia, poco studiate (se non addirittura mai in relazione ad alcuni aspetti particolari). Forse, proprio per questo, quella dei battaglioni risulta essere la più interessante: in effetti è analizzata moltissimo, ed è quella che ci permette di avere uno spaccato di una parte della società tedesca più normale perché non apparteneva né alla Wehrmarcht né alle SS, ma era formata da persone scartate in precedenza dall’esercito, riservisti, gente non particolarmente politicizzata, e che erano stati richiamati in buona parte per necessità. La cosa che forse più colpisce è come queste persone, spesso padri di famiglia, una volta ricevuto l’ordine di cominciare le prime operazioni di rastrellamento ed assassinio di ogni ebreo che venisse scovato (donne, bambini, uomini, vecchi, malati) nei territori dell’Unione Sovietica – il che cambiava sostanzialmente la tipologia dei loro compiti precedenti – non ebbe nessuna difficoltà e remora ad aderire pienamente al programma genocida e a dare libero sfogo ai propri istinti più violenti e bestiali. In tutto e per tutto si comportarono come le Einsatzgruppen, gli squadroni della morte sotto il comando SS. Si calcola che in Unione Sovietica queste strutture massacrarono un milione di Ebrei (più un altro mezzo milione di “oppositori vari”), buona parte dei quali con armi da fuoco, bastonate, roghi, insomma: guardandole negli occhi e non chiudendole sotto le docce a gas dei campi.

 

L’assurdità apparente della logica nazista, apparente ai nostri occhi, emerge pienamente anche dall’analisi dei campi di lavoro e delle marce della morte. Le priorità vengono rovesciate, quello che in epoca di guerra, soprattutto quando oramai quest’ultima comincia a volgere al peggio, dovrebbe logicamente assumere il ruolo di necessità maggiore, per i tedeschi non succede, anzi, gli si antepone sempre la sofferenza e l’eliminazione dell’Ebreo. Nel caso delle marce della morte, l’analisi di alcune di queste nei momenti finali della guerra mette in luce l’irrazionalità dei comportamenti rispetto alla avanzata dei nemici ormai alle calcagna, anteponendo alla sicurezza personale assurdi girovagare in territori ghiacciati per settimane e settimane con prigionieri sempre più scavati dalla fame, dal freddo, dalla fatica e dalle immancabili sevizie quotidiane dei loro aguzzini, disobbedendo anche ai chiari ordini di Himmler che aveva deciso un cambiamento “più umano” nel trattamento degli Ebrei per potersi garantire una massa di ostaggi da presentare sul tavolo delle trattative con gli Alleati. In particolare, risultano spesso assurdi i tragitti di tali marce della morte che, invece di essere il più diretti possibile per raggiungere la località prefissata, divenivano incredibili zig zag fatti di centinaia di km inutili. Come scrive Goldhagen: “Nel vuoto di potere, nel caos istituzionale, logistico ed emotivo degli ultimi mesi e delle ultime settimane di guerra, non sorprende che un fenomeno incoerente come quello delle marce della morte sia diventato una delle strutture portanti della Germania nazista.”

 

Molto interessante risulta anche l’analisi del concetto di “lavoro” e della struttura ad esso preposta che fu il campo. Anche in questo caso si sfata l’idea dello sfruttamento produttivo degli schiavi ebrei da parte delle industrie tedesche: l’utilizzo della manodopera ebrea non diede di fatto nessun apporto significativo perché semplicemente non in grado fisicamente e date le condizioni di lavoro di risultare realmente produttivo, tanto che si ebbero anche casi di aziende che dovettero chiudere per bilancio passivo. Sebbene ad un certo punto della guerra la Germania avrebbe avuto necessità di implementare la propria produzione industriale, scelse invece di anteporre sempre l’obiettivo primo che si era prefissata, cioè la distruzione degli Ebrei. Nella concezione che di essi avevano i Tedeschi, il lavoro costituiva il mezzo per far loro scontare le colpe attribuibili alla loro stessa natura demoniaca, nella quale eccelleva l’aspetto dell’essere parassiti sociali che minano la nazione nella quale vivono. Il lavoro, dunque, come estenuante tortura quotidiana, insensato, abbruttente, mortifero, fatto magari di muri da costruire per poi essere buttati subito giù, o di pietre portate nel fango da una parte all’altra e poi riportate di nuovo indietro. Il lavoro come mezzo per dare la morte attraverso la sofferenza indicibile. E il campo come struttura del lavoro: “L’ideale che ispirava il trattamento dei più odiati tra i detenuti dei campi, gli Ebrei, esigeva per loro un mondo di sofferenza infinita, che si sarebbe conclusa soltanto con la morte. (…) Si trattò, vale la pena di sottolinearlo, di un’alterazione profonda, rivoluzionaria, della sensibilità, avvenuta in Europa in pieno Novecento.”

E ancora: “Il campo non fu soltanto la struttura paradigmatica dell’asservimento violento, dello sfruttamento e del massacro (…) L’essenza del campo non è riconducibile a questi aspetti particolari, perché prima di ogni altra cosa quella era una struttura rivoluzionaria, attivamente e consapevolmente indirizzata a conseguire trasformazioni radicali. Fu una rivoluzione di sensibilità e di prassi. (…) L’universo dei campi fu rivoluzionario perché fu lo strumento principale utilizzato dai tedeschi per quella radicale trasformazione del paesaggio umano e sociale d’Europa.”


 

Insomma, il libro è sicuramente un lavoro estremamente interessante che presenta diversi meriti. Come è facilmente intuibile, possono esserci momenti in cui la lettura si fa pesante non tanto per la difficoltà del testo in sé, quanto per ciò che descrive: leggere pagine e pagine di cervelli che schizzano, sangue dappertutto, fosse comuni, neonati presi a pistolettate, corpi massacrati di botte è evidentemente “stancante” dopo un po’, lascia ovviamente un sapore di nausea. Ma il lettore non deve aspettarsi una sequela di orrori fini a sé stessi, perché 1) costituiscono solo una parte del libro, 2) sono necessari a svelare la natura e le dinamiche dei “normali” Tedeschi che ne erano fautori. Se c’è invece una presunta pecca che si potrebbe essere tentati di cogliere, è quella di dilungarsi talvolta forse troppo nelle analisi, dando l’impressione di ripetersi un po’ nel corso del testo; potremmo cioè dire che avrebbe potuto essere un po’ più sintetico. Ma alla fine rimane l’impressione che anche questo rianalizzare e sviscerare continuamente le varie tematiche sia dovuto allo sforzo di non perdere ogni sfumatura possibile e di cercare di penetrarle profondamente, e potremmo dunque affermare che risulti funzionale al portare il lettore al cuore dello scopo che si prefigge questo studio.